“Perché non posso.“ Rispondevo, da piccola, ai compagni di classe che chiedevano perché non andassi mai alle festine di compleanno. Stavo a casa, io, un po’ perché non c’era nessuno che potesse accompagnarmi e un po’ perché dal Barone Rampante in poi, tra alberi e pagine, avevo un sacco da fare.
“Ognuno sulla propria roccia.” Dissi una volta a un’amica in vacanza con me. Nell’alto giurassico. L’amica era simpatica, il posto bellissimo e non c’era nulla che non andasse. Nemmeno il mio bisogno di isolarmi. E leggere.
“Meglio la compagnia di un brutto libro che quella di un bell’uomo.” – Rispondo a chi, da maschio, mi invita a cena e a chi mi chiede, da femmina, perché io non voglia mettere (quasi mai) il naso fuori casa. “Dovresti fare più vita sociale”- mi ha detto ieri qualcuno per cui sto scrivendo. “Morirai sola” – profetizzò un giorno un uomo incapace di accettare un rifiuto. Già. Certo. Come tutti, no? E del resto, alla fine, direi meglio. Pensa che dramma, morire tra le braccia di un figlio, o davanti agli occhi di una madre o di un’amica. No, meglio di no. Molto meglio morire da soli, lasciando che ci piange possa immaginare una fine felice, rapida e magari indolore, tipo la chiusura dello schermo di un computer, senza arresto, ma in modalità stand-by.
“Sarai sempre sola”. – sentenziò un altro, offeso da un no come tanti.
Non sono sola e non sono nemmeno “singola”, come mi chiamò un giorno il mio bambino spiegando a un compagno perché non avessi un fidanzato o un marito nuovo. Certo, come se finito il vecchio, di marito, una andasse all’IperCoop a sceglierne un altro dagli scaffali. Non sono singola, se a “single” riportiamo il significato originario, di una persona che non ha altri da accudire che se stessa, che non dipende da nessuno (aprirei una voragine, qui, su questo punto, del non dipendere da alcuno, se solo avessi un paio di vite in più). Non lo sono perché di esseri umani da accudire, proteggere e coccolare, intorno a me, ce n’è più d’uno, in pianta stabile.
E non sono più sola di chiunque altro. Per trovare un’etichetta che mi si appiccichi bene addosso, toccherebbe aggiungere una i, di Imola, davanti al femminile singolare dell’aggettivo “Sola”.
Dal dizionario online de Ilcorriere.it, ecco la definizione:
“Isola. Porzione di terraferma circondata completamente dalle acque || i. corallina, formata da colonie di coralli e madrepore | i. vulcanica, formata dall’accumulo di materiale eruttivo. //Estens. Porzione di territorio che, per caratteri linguistici, etnici ecc., si distingue dalle zone circostanti: i. francofona || i. amministrativa, territorio incluso in un comune, in una provincia, in una regione diversi da quelli del territorio circostante.// Isola pedonale, zona urbana chiusa al traffico. // Figurato. Luogo riparato, tranquillo SIN oasi: qui è un’i. di felicità, di pace. // Biol., anat. Porzione di organo dai contorni netti; anche, piccolo grappolo di cellule omogenee in un tessuto diverso || isole di Langerhans, piccoli gruppi di cellule distribuiti in tutto il pancreas che secernono l’insulina.”
Dall’isola e all’isola – nel suo significato letterale – non si arriva né si parte per caso. Per arrivarci, sull’Isola, tocca nascerci, oppure serve una barca, o un sommergibile, un aereo, una mongolfiera o un drago volante. Per andarsene, pure. A nuoto, così, di punto in bianco, non si va da nessuna parte. Al massimo si affoga.
In quello letterario, estensivo e retorico, anche.
Serve un pass, così come per la zona pedonale, chiusa al traffico, dentro la quale puoi anche rischiare d’infilarti senza lascia-passare, ma se ti beccano, poi, è un casino. I contorni bio-metaforici dell’organo, infine, lo definiscono come un nucleo a sé, come una piccola Repubblica di San Marino o una Città-Stato dalle mura invalicabili.
La mia non è solitudine, ma – negli anni in cui se non hai una “i” davanti sei un Android – la mia è “iSolitudine” e i miei iSolani sono nati qui, intorno a me e parlano la mia lingua, mangiano il mio cibo e ballano le mie musiche.
Chi se n’è andato, morendo, è seppellito qui. Chi invece è stato espulso non tornerà mai più. E per esserne sicura, negli anni, ho imparato a costruire muri sempre più alti, installare protezioni e anti-virus a prova di hacker, barricare porte, finestre e bocche di lupo, addomesticare piranha, reclutare sentinelle armate fino ai denti e affilare le rocce a strapiombo sul mare.
Chi esce e dall’iSola se ne va o viene cacciato, quindi, non rientra. E non perché io non sappia o non voglia perdonare, perché non c’entra il perdono, che arriva subito, o quasi, ma perché se una cellula viene riconosciuta come dannosa, va tolta e mandata in mare. In mezzo agli squali, anche, se necessario.
L’iSolazione, la mia iSolazione, derivazione diretta della mia ISolitudine, non è diversa da quella di una qualsiasi altra persona che non esce per guardare la Tv. O che s’incolla a Facebook per sei ore di seguito, fino a crollare, ogni sera. O che s’infila un ipod nelle orecchie. O si butta nella mischia di uno stadio gremito di ultras, o di rave in mezzo alla foresta. Io non sono diversa da un hoolingans idrofobo. Da una fashion blogger isterica. Da una shampista invasata con gli addominali a quadrettini. Da un ingegnere (beh, magari da un ingegnere sì) collezionista di scarpe da donna. Faccio parte di questo millennio. Di questo pianeta. Universo. Sistema. Microcosmo.
Mi sveglio, vado in bagno, mi lavo, mangio, faccio i compiti, mangio, vado in bagno, faccio i compiti, vado in bagno, mi lavo, rimangio, mi rilavo, faccio i compiti e vado a dormire. E a volte, se bevo troppa acqua prima di andare a letto, mi sveglio per riandare in bagno. In mezzo a tutto questo fare i compiti e mangiare e andare in bagno (soprattutto andare in bagno), mi occupo dei miei isolani, da loro vengo accudita e coccolata e con loro parlo, rido, cucino, gioco a Ruzzle, mando email, faccine e WhatsApp, a volte litigo, sbuffo e faccio le puzzette. Come chiunque altro.
Il concetto di “Isola” mi ha sempre affascinato. Legato ad un bisogno infantile di scoperta e di avventura, ritrovo nell’ Isola un’idea di pace, sebbene questa mia interpretazione sembri l’antitesi delle sensazioni che germogliano in noi trovandoci dinanzi all’ignoto. Che si estenda a perdita d’occhio o sia più piccola dell’asteroide B612, che sia brulla e apparentemente inospitale o che divenga ai nostri occhi un nuovo Eden, che sia da esplorare e comprendere o da vivere all’ombra di una palma degustando un poco di rhum, l’Isola, sempre lei, non è per tutti. Molti si accontentano di viverla ai margini, pochi desiderano conoscerla, esplorarla, sfidarla, trasferirsi su di essa.
L’uomo è un microcosmo complesso e mutevole (per gli altri e per se stesso). L’uomo è allo stesso tempo esploratore ed isola. Alcune persone restano per noi terre distanti, altre restano isole (ma mai così lontane), altri uomini sono visitatori giornalieri (graditi o meno), infine abbiamo gli esploratori che divengono, talvolta, isolani. Noi possiamo essere Isola ed Isolano; è una scelta nostra, solo nostra, ed in continua evoluzione. Noi, come questo mondo chiamato Terra, dobbiamo imparare ad accogliere o allontanare a seconda di quanto richieda la sopravvivenza del nostro ecosistema. La ricetta è semplice, ma spesso lo scordiamo, abbagliati da isole artificiali che offuscano i nostri sensi.
Trasferirsi su di un’Isola può essere duro, essere un’Isola può sembrare spietato (verso gli altri o verso noi stessi), essere allo stesso tempo Isola ed Isolano è quello che chiamiamo “Vivere”.
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Sì, ne ho dimenticato uno, di significato: quello con la ò larga.
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