Downsizing, ovvero: come scendere dal fico con un salto in una domenica d’Aprile.

Più libri, più penne, più fantasmi. Più chiamate, più contatti, più appuntamenti, più contratti. Più fatturato più costi, più guadagni (in teoria), più collaboratori, più impegni. Più strada, carburante e pedaggi, su auto più grosse e più potenti. Più impegni. Più pensieri. Più paura.

Per anni ho inseguito la crescita, continuando ad accelerare, a correre, a fare di più, sempre di più. Girando in tondo, come una pallina impazzita dentro a un flipper. L’ho fatto da studente. Da imprenditrice. Da dirigente. E perfino da mamma, moglie prima, ex-moglie poi, e l’ho fatto anche da scrittrice.

Diciassette anni fa, Re Artù* mi diceva che il nostro era un mondo di scatolette di tonno. Credevo di capire, giuravo di capire. Ero lontana anni luce. Ero il tonno in scatola che sbeffeggia il tonno in scatola.

Io, che alle medie recitavo Blake, alle superiori disegnavo per ore e ore e scrivevo in continuazione osservando gli abitanti del mondo, ammaliata e schifata dall’uomo, dalle sue capacità e dalle sue meschinità, dal suo essere formichina in una teca di cristallo, dalla sua rabbia, dalle sue piccole vicissitudini e preoccupazioni, e che all’università passavo gli esami con la forza del pensiero e della parola e che mi sono sposata presto, ho partorito in fretta e ho cambiato lavori e case e vita con la stessa frequenza con cui i rappresentanti cambiano auto, ieri – forse per la primissima volta – ho capito di non aver (quasi) mai capito niente.

Io, (grammarnazi di ‘sta cippa), che ripetevo le parole di David Foster Wallace come un mantra, chiudendomi lì dentro, illusa e tutta tronfia della mia e dell’altrui proprietà lessicale, della sete di sapere, delle mie medagliette da boy-scout della letteratura e della scienza, ero più formica della più formica delle formiche.

Non disegnavo più. Sì, ho disegnato Ulisse. E Ulisse è figo, vero. Ma non disegnavo più per bisogno. Per il bisogno di farlo.

Anche quella del down-sizing, del ridimensionamento, era un’altra delle mie storie. Quella che stavo raccontando a me e agli altri, con il solito piglio da maestrina era solo una storiella: “Guarda me, guarda come sono brava!”. La solfa del down-shifting. Del cambiare vita. Del mollare l’impiego dirigenziale per fare la mamma e vivere di libri. Il succo, la trama era la stessa. Avevo solo cambiato il carattere, modificato qualche illustrazione, forse il formato. Il look.

La formichina stava sempre nella teca. La teca non era più in cristallo, tempestata di pietre preziose, ma era sempre una teca. In mezzo a un campo, ma sempre teca.

Poi, ieri, guidando verso la montagna per andare a pulire un appartamento, dopo aver ricevuto una telefonata, ho iniziato a pensare a quanto fossi ridicola. Formichina dentro la teca. Tonno in scatola che sbeffeggia il tonno in scatola.

Il mio cervello-rettile si sta svegliando, pare. Ieri si è stiracchiato, e sembra si stia alzando, ma il risveglio è iniziato da un pezzo, partito con la simbiosi con un cliente, i suoi pensieri e le sue (agghiaccianti) storie.

Simbiosi che mi ha reso fantasma vero, anche se in chiaro. E coscienza di un uomo, delle sue vite. Delle vite che si sente raccontare.

Il risveglio è proseguito con l’arrivo di un lupo. È cresciuto con un’amica che mi ha parlato di ho oponopono, coccolato da qualche cena a casa, di domenica sera, in compagnia di un manipolo di super-eroi, buon cibo e grasse risate, massaggiato dalle manone di mio figlio che prendono la palla e arrivano a meta o inforcano una penna e scrivono poesie da far impallidire perfino suo padre, o prendono lo scalpello e scortecciano tronchi (il gene del poeta-boscaiolo…). Solleticato dal profumo forte dell’erba appena tagliata, male, da me, con la falciatrice di un’amica e la guida di un amico molto molto paziente (“Più a destra, più a sinistra. Dritta riesci a andarci o ti disegno le guide come in aereo?”). Espresso in una casa in mezzo ai campi, con gli oleandri, un’ortensia, salvia, rosmarino, lavanda, menta, more, basilico e aloe. E legno, tanto legno. E un rododendro, una fotinia, una margherita e un’azalea.

E ancora: un libro sui denti, sulla dentosofia (i denti storti che si sistemano da soli, senza ferraglia in bocca, ma masticando un pezzo di caucciù), un tomo di neuroscienze, i lavori di due medici-ricercatori-scienziati-pazzi sulla capacità generativa e rigenerativa delle cellule. La scoperta di non essere individuo, ma comunità di milioni di cellule. La comunione improvvisa e inspiegabile delle cellule che comunicano e si capiscono a chilometri di distanza. La zia che cade per le scale. La zia fighissima, simpaticissima, bellissima. I medici che non danno speranze. I mesi in ospedale. La paralisi progressiva. E poi qualche movimento. La strada verso la ripresa. I fili che si toccano. Fili di lana rossa tra una vita e l’altra. Le coincidenze. Il caso. Una festa nel prato. Lo stesso libro sulle scrivanie di tre persone diverse. La scelta di un nome per il protagonista di un romanzo, senza sapere – per mesi – che il nome deciso è quello del padre dell’autore. I film che fanno ridere. Quelli che fanno sognare di riuscire a salvare il mondo. Le parole a cui credo. Le parole che non esistono, e che cambiano significato. Il significato che l’uomo dà a quello che dice, che vede, che sente e che cambia la percezione, cambia la realtà. La realtà che, come l’istinto, non esiste. Come non esiste un cuore, non esiste un cervello, non esiste un corpo.

La comprensione. La tolleranza. La capacità di lasciar correre e dire: “No, grazie. Non m’interessa”. La facoltà di chiudere le porte che vanno chiuse e di aprire le altre. Di andarsene quando è ora. Di dire a un cliente che non ci lavorerò mai più. Di accogliere una persona in casa mia e leggere la sua storia, per farne, forse un libro, o forse no. Di desiderare un romanzo al punto da trovare una penna nello stesso paesino dell’autore, per avere una mano con l’idioma.

Le cose che ho chiesto. Le cose, i fatti, le situazioni che desideravo senza sapere di volerle. O senza saperlo davvero. L’abbandonarmi tra la clavicola e la spalla e dormire. E risvegliarmi sorridendo.

E l’amore. L’amore per la mia mamma, la com-passione – piena d’incanto – per lei, per le sue mani con l’artrite, belle e forti e eleganti e nobili anche con la terra sotto le unghie. Per il suo corpo fragile, aggraziato, e lo sguardo fiero. Morbido. Velato, non piegato.

L’amore per la mia amica S., più sorella di una sorella e la gratitudine per averla incrociata e trattenuta e coltivata e nutrita. E sgridata. Come fosse mia figlia. O roba mia. Mia come il mio nano.

L’amore per la bellezza. Di una clavicola perfetta, di un avambraccio disegnato. Di una grigliata da premio Nobel per la letteratura. Di nove capitoli scientifici puntuali ma non accademici.

L’amore. Che muove il mondo. Che sposta e fa girare questo mondo stupido, piccolo, ridicolissimo e tutti i suoi ingranaggi. E si specchia negli occhi degli altri, o di un altro, così bello da non crederci. E mi fa tremare, mi fa stringere le palpebre e scaldare lo stomaco. Mi fa prendere una matita e mi fa disegnare. Mi fa scrivere. Senza rileggere. Senza controllare le fonti. Senza verificare l’ortografia della parola ho oponopono. Mi fa sorridere. Da sola. E mi fa ascoltare e parlare per ore, a un tavolo rotondo, dopo una cena messicana fatta in casa, di cosa sia, di come funzioni, di quanto non serva affatto sapere come funzioni, o capire perché esista, perché nasca, da dove arrivi. O a dove porti.

PicsArt_105836.331747625*Re Artù era davvero Re Artù.

8 pensieri riguardo “Downsizing, ovvero: come scendere dal fico con un salto in una domenica d’Aprile.

  1. questo giro sono cattiva.
    Melenso.
    Tagliare l’erba è una cosa che odio. Passerei al diserbante in 30 secondi se non ragionassi sull’insensatezza del farlo. Ma non c’è nulla di piacevole nel cominciare a soffiare il naso quando tagli i soffioni.

    La formica è uno degli animali che amo di più. Quando mio figlio le schiaccia apposta vorrei avesse un gigante sopra di lui che schiacciasse lui. Sono piccole ma metodiche. E, per quanto piccole siano, vanno avanti. Anche nelle metropoli. Loro vanno avanti. Sempre e comunque.
    I delfini, le balene: tutti grossi animali. Eppure si arenano o spiaggiano.

    No.

    Questo giro più che tonno in scatola mi sembra la solfa da foca ammaestrata.
    Anche nostalgica.
    Ma pur sempre ammaestrata. Saccente, con tante citazioni, pronta all’applauso.
    Foca ammaestrata.

    No.
    Questo giro proprio non mi è piaciuto.

    Roberta

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  2. Sì, probabilmente hai ragione, Roberta. Il pezzo è melenso. Lo è perché lo sono io. E ti dirò anche che sono felice di esserlo.
    Come sono felice di dire e scrivere cose che ritenevo ripugnanti fino a poco tempo fa.
    Diciamo che me la godo. E non poco.
    Non l’ho riletto. Riguardandolo dopo la pubblicazione, ho trovato frasi che avrei cambiato, parole ripetute, aggettivi inutili. Ma non l’ho toccato. L’ho lasciato lì.

    Non tutte le risate sono aggrazziate.

    A me tagliare l’erba piace.
    Come mi piacciono le formiche, ma il senso, là, dentro nella melassa del pezzo che ti fa venire voglia di essere cattiva, non toccava le bestioline…

    Foca ammaestrata? Può darsi, anche qui. Ci sta.
    Saccente? Vero.
    Pronta all’applauso? …E se fosse?

    Se pensi di avermi rimesso in riga, però, Roberta, sei fuori strada. Apprezzo i tuoi commenti e pur non conoscendoti, mi attiri. Anche quando percepisco un filo di soda caustica.
    Anche quando mi chiedo se e a cosa serva.
    Li leggo, rispondo, li pubblico.
    Sto bene lo stesso.
    Da poco ho uno scudo fighissimo.
    Pù resistente di quello di Captain America, e più potente del martello di Thor.
    Tu mi vedi foca, super-foca, Roberta, ma io, in questi giorni, mi sento davvero fica. Anzi: super-fica. E non perché – di colpo- creda di esserlo, ma perché lo vedo negli occhi dei super-eroi che mi circondano.

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    1. Ecco perché abbiamo lo stesso nome. Perché ad un certo punto siamo arrivate allo stesso punto.
      La formica non legge. Fa. (non la nota. Il verbo). Ma va bene anche la nota.
      Un bel FA. Anche perché i giri di Sol in genere sono schiaffi. Fanno bene anche quelli qualche volta.

      Le formiche tracciano la loro strada. Non si perdono quasi mai. Non gli serve il navigatore satellitare in parcheggio vicino a Marte per trovare una via a 300 metri da casa.

      Comunicano ma non sovrastano. Nel loro piccolo sono architetti. Quelle rosse anche un po’ carogna a dire il vero.

      Meglio essere formica oppure qualunque altra cosa che non hai deciso tu. Solo che è così. E deve essere così.
      La casa deve essere pulita.
      Il tuo lavoro deve essere perfetto.
      I tuoi abiti devono essere perfettamente in tono con la situazione.

      Fossi Adidas farei una pubblicità con scarpe da tennis ai piedi di una formica che, dei deve, se ne sbatte.

      Lei vuole.
      Per se stessa e per chi ha attorno e conta su di lei.

      FormiRob

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  3. No. Non sono una che turba la gente.
    Husserl e Heidegger li ho sempre riassunti con “ci sei o ci fai?”.
    La gente mi colpisce spesso. Seguo il mio io ed il mio pensiero. Poi, ci dormo sopra, rilevo le mie incoerenze e le incoerenze altrui. Faccio su un casino che la metà manderebbe Husserl e Heidegger in coma a braccetto e perfettamente d’accordo.

    Se vivo nel mio microcosmo la penso come voglio io. Se vivo con gli altri mi aspetto che gli altri facciano lo stesso.

    E si trova la perfezione nell’imperfezione.

    Gli EGO, che si sentono incontestabili e nell’assoluto giusto, perdono gli altrui punti di vista. Quindi perdono una buona parte di ciò che potrebbero comprendere se abbandonassero il proprio EGO, le proprie assolute certezze, e cominciassero a valutare il margine di “errore” nella teoria assoluta.

    Non sono cattiva.

    Credo che Cappuccetto Rosso fosse sventata e sua madre idiota.
    Credo che Cenerentola poteva anche andare via dal castello dei topi senza aspettare che qualcun le regalasse il mondo su un vassoio.
    Credo che Harry Potter si possa anche fare una plastica facciale ed un intervento alla cataratta se l’insieme lo sconcerta e non gli piaccia fare la prima donna (benché adori esserlo)
    Credo che la metà dei Manager siano più fumo che arrosto

    Ma cambio idea volentieri se qualcuno me la fa cambiare. A parte Cappuccetto Rosso e sua madre. Mi ha sempre fatto pena i lupo cattivo.

    Roberta

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  4. Husserl e Heidegger: soprattutto se sei in un bosco. e c’è il lupo cattivo. A braccetto oppure.. Pensiero figliesco. La sua versione è stata, nel sonno: soprattutto se sei in un bosco…

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