È successo, finalmente.
Purtroppo. Ma anche per fortuna.
Una volta avverata, una profezia la cacciamo via dalla testa.
Una volta accaduta, materializzatasi una premonizione (per mesi in-proiettataci a immagini intermittenti, poi di volta in vota sfocate e man mano sempre più nitide), non ci si pensa più.
È fatta.
Ci siamo tolti il pensiero.
Auto in panne, notte piena, buio pece, asfalto montanaro e monotono; silenzio egoista e solitario che vorace inghiotte – mai sazio, in sordina – sbadigli di rari motori, marmitte insonni di piloti temerari, segnaletica contata goccia a goccia ogni quattro curve e due rettilinei, in una gola di asfalto che più del nulla non si può.
La linguetta inizia a ribattere, l’elastico nevrotico di una bretella frulla vorticosamente in una centrifuga stridente e folle. L’orecchio, più spaventato che curioso, si interroga provando a identificare il messaggio che pur facendo scintille promette non gioia ma nulla di buono.
Non un messaggio di pace.
Il pensiero balbetta simulando lucidità. “Non è nulla. Non è vero che penso non sia nulla”.
Provi a sbarazzarti del terrore. Come quando scacci una mosca molesta.
E non ci credi tu per primo.
I segnali si fanno più inquietanti.
L’affanno nell’accelerata, il respiro corto fra una marcia e l’altra, a scalare, poi il rantolo e infine l’infarto. Del motore. E il tuo.
Un colpo – l’ultimo – sordo che, però, sente benissimo il tuo panico, (e che anche tu odi chiaramente) Vi blocca su un viadotto che – quanto a cultura – ha solo studiato il modo per fartici lasciare le penne.
In quell’anfratto di emozioni stritolate dal sonno e dal freddo non c’è spazio per sedersi, per stare ritti in piedi, per accasciarsi di dolore o crepacuore. Non c’è spazio. Non c’è tempo. E in quel nulla, esanime, tutto l’attimo che ti serve. Coglilo. Devi coglierlo pur senza aver seminato, accucciata sul ciglio di una corsia che è un occhio chiuso, come un animale ferito. Dal quadro nessun segno di accensione.
Ma a venti minuti dall’ictus meccanico ci riprovi, deglutendo odore di gasolio, con l’aritmia che ti ha ghiacciato anche la chiave. E la creatura si rimette in cammino, col fiato corto, allungandosi di altri cinque metri cinque, laddove la piazzola di un distributore (TOTALmente all’oscuro anch’essa, scorta con una vista disperata a infrarossi) si apre in un abbraccio commovente.
Il telefono prende. Secondo miracolo dopo la scampata mousse di auto e tir.
Mezz’ora all’arrivo dei soccorsi.
Infinita. Più della paura.
Più lunga della notte più lunga di tutte le notti più lunghe di tutte.
Amen: la profezia si è avverata.
Basta incubi.
Adesso scrivo.
Autore: Anita Madaluni