“mi piace”: la conferma del XXI secolo.

Da più di duecentomila anni, l’uomo cerca conferme.

All’età dei Sapiens Sapiens, la ricerca della gratificazione personale passava per il confine della sopravvivenza: il più bravo dei cacciatori era quello che aveva più possibilità di nutrirsi, procacciare cibo per altri, riprodursi e farla franca contro il tirannosauros rex dietro l’angolo.

All’epoca dei cavalieri e delle giostre, il più aitante e valoroso, ricomposti i pezzi (non c’era il wrestling e si facevano male sul serio, loro), arrancava fino al podio per prendersi il bacio della Signora (equivalente medievale della Velina, solo con meno trucco e molti più peli, baffi inclusi).

Da Zuckerberg in poi, la battaglia è arrivata online, a colpi di like, di mi-piace, di retweet  e di forward. E le folle sono impazzite.

Milioni di adolescenti (dagli undici ai sessantatré anni compiuti), pur non uscendo di casa, sono fieri (beati loro) di contare (a badilate o terabyte) centimigliaia di contatti virtuali. Non coltivano relazioni offline, ma si sveglian di notte (o durante le riunioni in ufficio) per postare un’autoscatto, rieditato dai filtri di Instagram e corredato da fiumi di hastag più imponenti del Mississipi unito al Rio delle Amazzoni, al Nilo e al Volga.

Hanno una laurea, un master e un paio di dozzine di corsi di aggiornamento, ma scrivono in economia di lettere, come se di anni (e neuroni, già che ci siamo), ne avessero nove. Oppure, peggio, usano la kappa al posto del Ci Acca (rush cutaneo) e mai meno di quattro/cinque puntini di sospensione (labirintite e gola secca).

Cercano conferme. Cercano un like. Cercano spasmodicamente una stellina o un retweet (o meglio: una stellina E un retweet). Hanno bisogno di non sentirsi soli. Di credere di non essere soli. Di raccontarsi di non esserlo.

Ci sono i seriali (che pubblicano sempre sullo stesso tema), gli individualisti (che per tema hanno solo il proprio ego), i politicanti, gli Inquisitori (che scandagliano il web in cerca di argomenti contro cui sfogarsi), i condivisori-folli (sono sveglio; sono felice; sono infelice; sto facendo colazione; mangio la nutella; mi sento grasso; mi sento in forma; vado a correre; torno a letto…) e i benedettini, che son quelli che prendono le frasi di chiunque altro, dal Sommo Poeta a Gino l’Arrotino, le riscrivono con un programma di grafica a caso e poi le ripubblicano.

Loro, i Social-dipendenti, scrivono per il loro pubblico o per un solo elemento al quale vogliono far sapere cosa stiano facendo e dove si trovino. Vivono nella rete e per la rete, senza accorgersi delle sue maglie. Vivono in noi, in ognuno di noi. Loro, siamo noi, che andiamo al mare, al ristorante o a un compleanno e postiamo i nostri scatti in cerca di conferme.

Siamo noi. Ed è un peccato perché se il social-globo ci permette di riattivare contatti perduti, organizzare una cena di classe dopo dieci, venti  o trent’anni e ritrovare la compagna di banco dell’università con cui preparavamo statistica bevendo uno spritz, dall’altra – se glielo permettiamo – ci esilia e ci aliena e ci schiavizza.

Un pensiero riguardo ““mi piace”: la conferma del XXI secolo.

  1. E’ questo il prezzo del progresso? Siamo nell’era dell’informazione, ma informazione non è sinonimo di una vera comunicazione. Finchè la donna era considerata alla stregua di una preda od un investimento (matrimonio combinato o no, la famiglia ed il procreare erano visti comunque come un mezzo di sostentamento), i ruoli di uomo e donna erano ben definiti e, perlopiù, separati: l’intimità era “un di più”, comunque non funzionale alla sopravvivenza della coppia e della famiglia.
    L’emancipazione femminile ha però, giustamente, reso arcaico questo modello, ed i tentativi di sostituzione dello stesso non sono ancora giunti a giusta maturazione.
    La donna si è dimostrata più versatile nello sviluppare il proprio lato maschile, mentre l’uomo solo ora inizia, con difficoltà, a prendere contatto con le proprie emozioni, un tempo per lo più represse in favore di comportamenti ritenuti “più pratici”.
    La diffusione della psicoanalisi e le “meraviglie tecnologiche” sviluppate negli ultimi anni, cercano di tappare questa falla, in modo più o meno efficace. La prima cerca di farci prendere coscienza del proprio “io”, a volte trascurando però una corretta visione dell’altro. I progressi informatici hanno invece reso le informazioni immediate, ma nei social network, nati per la “condivisione”, si assiste per lo più ad una mera esposizione di se stessi, facendo a gara, più che con gli altri, con il nostro bisogno di attenzione.
    Ed è questo il punto: la mancanza di un’educazione sociale ci rende difficile l’immedesimazione nell’altro, condizione indispensabile per un dialogo, e così, in fondo, restiamo “isole” nonostante il mare che, attraverso il web, solchiamo.
    (“We are islands, but never too far” – Islands, Mike Oldfield)

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