Di più. Con meno.

Roberta giulia amidani The door/The chance

Amidani

“The door/the chance”

Produzione Urbinate – Primavera 2000

cm 70 x 50 – olio su tela

Forse perché qualcuno, da piccola, non riteneva avessi abbastanza talento il liceo, dopo aver preso la laurea di mio padre (ovvero quella che lui voleva per me) e dopo un paio d’anni di specializzazione, finii, senza minimamente rendermene conto, per infilarmi in un vortice.
Il mulinello iniziò con le prime botte di derrière e crescendo – alimentato da una dedizione ai confini col fanatismo – mi convinse (a lungo) d’esser brava davvero in quel che facevo. Qualunque cosa fosse.
Passai anni (un sacco di anni) nelle maglie di un delirio di onnipotenza che mi spingeva ad alzare l’asticella dei miei limiti e – diretta conseguenza della mania che m’era presa- degli sforzi necessari a superarli. Solo per fissarne di nuovi.
Dovevo dimostrare (a chi?) di essere all’altezza: del ruolo di moglie che avevo cercato, di quello di madre, che desideravo dalle elementari e di quello di manager, che mi ero, forse, ora dico: “senza nemmeno mai volerlo”, cucita addosso negli anni.
L’ansia da prestazione mi teneva sveglia, come gli spilli dell’Enigmista sulle palpebre delle sue vittime. Dormivo quattro ore per notte. Mentre dormivo, poi, sognavo – ammesso che quelli si potessero chiamare sogni- meeting, presentazioni, campagne pubblicitarie e avvocati.
Guadagnavo tanto e per guadagnare tanto ero costretta (o così credevo) a spendere tanto.
La voce di spesa più consistente – dopo carburante e pedaggi- era per le scarpe: in tacco dodici, solo a spillo, dal lunedì al venerdì, su e giù da treni, metropolitane, Sanpietrini, dentro grate, tombini, trappole per topi e lastricati urbani, non c’era tacco che passasse le tre settimane. Al massimo quattro. E una volta andato, essendo io davvero meticolosa nella distruzione del medesimo, non c’era calzolaio che accettasse di metterci mano. O martello.
Facevo più chilometri di un corriere Bartolini e – vivendo in autostrada – ero perfino arrivata a parlare con i caselli del pedaggio. Non con i casellanti, no, che prendevo la corsia Viacard, ma con la voce automatica prima della sbarra. La voce diceva: “Grazie, arrivederci” e io rispondevo: “Ma grazie a lei, buon lavoro” e la informavo sulla mia agenda del giorno: “Sa, di nuovo Roma, anche oggi, speriamo nel raccordo”. Degli Autogrill, manco a dirlo, conoscevo non solo i nomi dei dipendenti, ma perfino i turni. E di qualcuno i gusti.
Correvo. Continuavo a correre. Inseguivo il tempo, che non avevo mai, e – per recuperare un po’, che poi comunque sprecavo – partivo prima dell’alba e rientravo tardi. Quando rientravo. Nel frattempo, la mia vita stava correndo perfino più veloce di me, ma il tono che usava per segnalarmi l’anomalia, allora, era troppo flebile perché potessi udirlo.
Piano piano, estate dopo estate, cambio gomme dopo cambio gomme, cominciai ad aprire gli occhi (o a riaprire) e ritornai a scrivere. Più scrivevo e meno mi divertivo a far finta di divertirmi nel ruolo che vestivo. Iniziai a uscire prima. A dire di no. A lasciar correre. Smisi di mangiarmi il fegato per le decisioni altrui, per i piani, per le scelte che non condividevo e che mi consumavano. Non fui pronta, però, per il grande salto fino alla primavera del 2013.

Ma quando mi mollai, lasciandomi andare oltre il baratro (e visto che siamo a fine Agosto, praticamente ieri), cominciai a vedere non tanto quel che m’ero persa (o non solo, mettiamola così), quanto quel che avrei ancora potuto prendermi.
Mi interrogai sulle esigenze base dello status di madre di un ragazzino in età scolare e iniziai a capire come soddisfarle, riuscendo a far convivere i conti della serva con quelli onirici di una second Life all’insegna del benessere.
Rilessi il mio CV. Passai qualche settimana scandagliando il web e poi intravidi una nicchia in cui infilarmi.

Oggi lavoro nell’ombra, eseguendo compiti sgraditi a quei pochi, pochissimi clienti che a volte per caso, più spesso per sentito dire e grazie a Google…

  • mi trovano;
  • hanno abbastanza risorse per assumermi.

Sono un fantasma. Per mestiere sistemo le parole dentro ai libri di chi mi paga per non esistere (più, consegnate le bozze).

Lavoro da casa.  Quando voglio. E per quanto sia di fatto libera, nei sei mesi di test di questa mia utopica nuova via/vita, finisco di fare i compiti ben prima dell’inizio della scuola.  Ho nell’armadio (pure quello ridotto di nove decimi, conseguenza di una casa che occupa la metratura del salotto della precedente, posto auto compreso) abbastanza abiti e scarpe e borse e bigiotteria per vestire due generazioni di regine. Ho tempo per leggere. Ho tempo per cucinare. Per giocare a nascondino o a volano con mio figlio. Ho tempo per vedere le mie amiche. E – soprattutto – ne ho per ripetermi quanto io oggi abbia di più. Con meno.

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