Deriva da baro, la parola barone. Ha origine germanica, da lì è arrivata e si è diffusa dal medioevo in avanti portandosi dietro tutti i connotati del più basso dei titoli nobiliari. Lo so perché sono appena andato a verificarne l’etimologia.
Fa caldo stanotte.
Ci saranno trenta gradi, ma la temperatura percepita dalla mia biancheria supera i cinquanta. I miei boxer sono intrisi di umidità sub-amazzonica. Fa così caldo che le zanzare sono sedute in fila, come al cinema, sotto al ventilatore.
Dovrei essere fuori, a quest’ora. C’è una signora che mi sta aspettando. Si sarà preparata, vestita con cura e messa il rossetto. Forse avrà addosso il vestitino bianco che aveva la settimana scorsa, quando la vidi per la prima volta e non riuscii a non dirle quanto mi piacesse dentro quello che su una donna normale sarebbe sembrato uno straccio e su di lei un capolavoro. Drappeggiato nel marmo dal Bernini. Scolpito sopra la sua pelle pallida, così diversa da quelle tirate a lucido, marroncino-cacchetta, che di solito si vedono in estate per strada.
Un vestito è solo un vestito e l’eleganza è diventata démodé. L’ha scritto qualche giorno fa anche Feltri, parlando dei costumi di questa nostra civiltà che più che civile sembra ogni giorno più barbara. Lei non è una donna normale. Non assomiglia a nessuna. Non ha canotti al posto delle labbra, non ha braccia muscolose come quelle di Legolas, principe degli Elfi. Non indossa tacchi alti. Usa solo un rossetto. rosso. E nient’altro. Non porta profumo; è buona di suo.
Sembra uscita dagli anni Venti. Da un caffè parigino degli anni Venti.
Sono le undici e un quarto e tra poco sarò in ritardo.