Quando ero alle elementari io, Fred Flintstone urlava ancora”YABBA-DABBA-DOO” scivolando sulla proboscide del suo Dino, c’era Scooby Doo, Terence, Antony, i fratelli di Georgie, Ufo Robot, Holly e Benji e Sanpei. La mia maestra era una suora. Di quelle vere, full-optional, naso adunco, velo nero e sguardo rapace. Si chiamava Madre Vittoria. E, manco a dirlo, non perdeva mai.
Della mia classe, diceva fosse la peggiore dei suoi mille-mila anni d’insegnamento.
Noi, i suoi alunni, eravamo i più indisciplinati, i più svogliati, i meno ubbidienti fra tutti i bambini che lei avesse mai visto.
Fuori dalle mura orsoliniane, gli adulti parlavano dei giovani. Dicevano che la generazione era cambiata, che era diversa. Che quando erano ragazzi loro, “le cose” (locuzione generalista riferita all’andamento globale del pianeta, dall’economia al punto croce) erano diverse. I “grandi” si lamentavano dei piccoli sostenendo mancassero di spina dorsale, di entusiasmo, di voglia di fare.
“Non hanno fame”, dicevano. “Sono viziati”, sentenziavano.
Io che li sentivo ero piccola, avevo sempre fame e il massimo del vizio credo fosse una scatolina di Zigulì ogni morte di papa, per dire. E non capivo.
Con il passaggio alle medie, da una singola suora, mi ritrovai inserita in uno scenario eterogeneo: ai due veli di inglese e tecnica, si erano aggiunti i prof laici, più una via di mezzo fra l’Opus Dei, la santa inquisizione spagnola e Gordon Gekko in gonnella (a pieghe, color cachi).
Tutti i prof sembravano coordinati sul copione Vittoriano: noi, per quanto non fossimo più gli stessi, o fossimo in qualche modo cresciuti, restavamo i peggiori di sempre. I grandi, fuori, continuavano a lamentarsi.
Dalle medie al liceo, dall’università ai primi impieghi (di cui due in Uni e uno da un barone del sacro ordine dei dottori commercialisti e revisori contabili), la solfa, là fuori rimaneva la stessa. La lamentela non cambiava.
Poi, questa mattina, alle sei e quaranta è suonata la sveglia, mi sono alzata, ho preparato me stessa e mio figlio per la giornata (abluzioni, nutrimento, set-up materiale e check-out) e alle sette e quarantacinque sono uscita per accompagnarlo a scuola.
Ritornando alla tana, mi sono messa a pensare a quanto sia difficile trovare aiuto, a quanto sia schifosamente complicato trovare “penne” a cui passare un po’ di idee da trasformare in inchiostro o in bit. Ho ripensato al passato, agli scrittori incontrati, ai loro approcci, ai tentativi e agli abbandoni. Ho rivissuto la sensazione di depressione cosmica provata nel leggere articoli tutti belli composti ma fuori tema o fuori target. Mi sono sentita schiacciare nel ricordare le attese deluse, nel sentire il silenzio, nel non vedere movimento, ricerca, passione, nel trovare sciatteria. Nel confrontare epiche dichiarazioni d’intenti a prove stentate, buttate giù ad minchiam. Nel sentirmi dire che per me è facile e che per loro no. Nel sentire chi si lamenta del proprio status e nel vedere che non fa nulla per cambiarlo.
Al telefono, poco fa, mentre passeggiavo nell’erba già troppo alta, mi sono sentita parlare male delle so-called “nuove generazioni”. Mi sono ascoltata mentre dicevo che c’è troppa gente che non ha voglia di fare una fava, che aspetta che la manna cada dal cielo, che sta lì, piange e si piange addosso e che poi, quando c’è da metterci la schiena, quando una o più opportunità arrivano, molla. O ci prova, ma senza convinzione e mai fino in fondo. O non insiste, non sollecita, non si vende, ma aspetta.
E poi, rientrando dal molo LeRoy Merlin che attraversa il prato, dal tavolo di ping-pong fino alla tettoia di casa mia, costeggiando un’aiuola multietnica e due robinie in erasmus, ho avuto un’illuminazione e ho capito.
Cosa? Di chi sia la colpa, di tutto: delle lamentele, delle schiene fallate, della superficialità, della banalità, degli errori di ortografia, grammatica, sintassi, logica, semantica e concetto. Dei luoghi comuni e della disoccupazione. Del mercato che va a puttane collaboratrici erotiche e del livello di ignoranza cosmica e saccente del nostro Paese. Addirittura del traffico e dei parcheggi in centro.
La colpa è delle mamme. Anche un po’ dei papà, ma soprattutto delle mamme.
Sì, delle mamme.
La colpa è mia, perché sto crescendo mio figlio passandogli i calzini e controllandogli i compiti. Perché lo porto ovunque e non fa in tempo a dire “vorrei” o “mi piacerebbe” che ho già la mano tesa per dargli ciò che vuole. Il punto non sono i calzini, o i regali, non sono le attenzioni, o le cure e nemmeno i “vizi”. Il punto, il punto-partita, è che non gli do nemmeno il tempo per desiderare.
Lui non sa, per colpa mia, cosa significhi ASPETTARE qualcosa. Cosa voglia dire l’attesa, il desiderio, la voglia che passino i giorni, l’impegno che serve, la fatica. Non conosce il desiderio, il mio ragazzo. Non ha idea di cosa sia. Non ha bisogno di meritarsi niente. Non gli serve fare qualcosa di speciale. Gli basta chiedere. A volte nemmeno quello.
Gli sto insegnando a vivere male. Sto crescendo qualcuno che aspetterà di essere cercato. Che starà lì, fermo e zitto, in attesa di un lavoro, di un nuovo cliente, di un altro contratto. Che non saprà che il segreto della felicità è la produttività (Cit. Antonio Panìco). Che non avrà idea di cosa potrebbe avere, fare, ottenere, se solo levasse quelle sue bellissime chiappette dal burro e iniziasse a darsi una mossa.
Sto facendo in modo che questo ragazzo diventi un maschio adulto incapace di provvedere a se stesso, orientandosi fra i cassetti e gli scaffali di un supermercato, o tra un bilancio e un cv..
Visto che io li odio, i maschi così (come pure odio le femmine), l’unica chance che mi resta è invertire la rotta, prima che domani mi svegli, da qualche parte su una meravigliosa isola del Pacifico, con un Mojito in una mano e un libro di Wallace nell’altra, e mi senta raccontare alla mia vicina di ombrellone che mio figlio non lo vedo da quindici anni, più o meno dal mio arrivo nell’ospizio tropicale, ma che so che non è felice e che anzi è pure un po’ stronzo.
Sei in buona compagnia, anzi, mettiti in coda e rispetta la fila!
"Mi piace""Mi piace"
Quanti bambini/ragazzini sanno andare in bicicletta? Urlano “mamma, vado fuori con gli altri”. A giocare a palla, a fare un giro per il paese, a giocare a guardia e ladri o a nascondino?
Siamo una generazione terrorizzata dall’esterno, dal fuori. Tutti o quasi con recinzioni e griglie in ferro alle finestre. E poi fuori attraverso internet.
Siamo una generazione di genitori che dice: non aprire la porta a nessuno. Neppure ci fosse il mostro di Düsseldorf in agguato.
Siamo una generazione di genitori da figlio unico che deve eccellere in tutto. Scuola, scuola calcio, scuola tennis, scuola nuoto (a me hanno buttato in acqua e hanno dato due opportunità: o stai a galla o affoghi). Scuola basket, scuola pallavolo.
Catalogati da pulcini fino a possibili adulti frustrati, accompagnati mano nella mano fino all’altare, ammesso si sposino.
Siamo una generazione di genitori da caschetto e para-ginocchia per andare in bicicletta, che non è mai morto nessuno per le ginocchia sbucciate. Siamo la generazione di genitori da diete equilibrate e sushi.
Anche i cani dopo qualche mese non ricordano più i loro figli. Le mamme orse allevano i cuccioli per un anno e poi li buttano nella vita e se ne scordano. Gli esseri umani li trattengono come fosse un loro dominio e proprietà (motivo per cui è nato il mito della diatriba suocera/nuora).
Siamo la generazione della doccia tutti i giorni, della frutta tutti i giorni, dei compiti tutti i giorni.
Siamo i genitori dei devo imposti e i voglio per concessione. Ma i “devo” vengono prima.
"Mi piace""Mi piace"
Magari fossi lì dentro, Robi, inglobata nella tua prima persona plurale e parte di un sistema ordinato, un pelo maniacale ma ordinato e fatto a modino.
L’acquario in cui nuoto, quello della genitrice singola, è il caos puro, è assenza di regole, è fastidio per le abitudini, è repulsione al tutti i giorni. Qualunque cosa sia. Post-it per ricordare l’antibiotico. Lotta a terra per fortificare i muscoli. Peli di lupo da aspirare due volte al giorno, che appena levati si ripresentano. Ovunque. Inadeguatezza, senso di colpa, magone e attimi di terrore. Incidenti domestici. Gravi. Niente caschetti o protezioni. Corde appese alle travi su cui arrampicarsi. Sacchi da prendere a pugni. Niente tabù. Nessun libro all’indice. Allarmi per andare a rugby, sveglie per ricordare le note da firmare o i libri da pagare. Fuga dalla staticità: di residenza, mobilio e certezze.
Il mio acquario ha le ruote come una roulotte e io continuo a nuotare avanti e indietro come se dovesse esplodere da un momento all’altro.
Sono una mamma dotata. Forse. Ma che sicuramente non si applica.
"Mi piace""Mi piace"
Ben venuta nel mio mondo. Dove devo “portare i pantaloni” e le uniche donne con cui mi confronto sono un bassotto e tre galline. Spero almeno che le galline siano femmine e non maschi.
Inappropriata è il termine che usano per me sul lavoro. Perché parlo troppo e si può parlare tanto solo se si è al telefono. Gianni Rodari ci sarebbe andato a nozze. Dove il papà è più bambino di nostro figlio. Dove scrivere deve essere un passatempo non la tua vita. Dove devi ascoltare, fare, brigare, opere, omissioni, lettere e testamento. Dove sei fuori di testa se ti ricordi cosa hai sognato, perché te lo ricordi. Ma la vicina ti chiede: se il morto parlava devi giocare questo numero. E io non gioco!
Dove a parte che i bambini non sappiano più cosa sia stare assieme se non online, è sempre essere fuori posto se non sei davanti alle tue parole e al tuo essere che non deve essere per forza un ego. Semplicemente sei tu. Così come sei. E non è che forzatamente devi stare nei ranghi delle imposizioni altrui. Altrimenti cosa sei? Chi sei?
Una persona perfettamente appropriata e, sfortunatamente, a me viene male forte.
Mi pigliano per matta perché se leggo Il Maestro e Margherita devo ascoltare il Rach III…
Non mi piace fare cose che mi vengano imposte. Mi piace parlarne e trovare il giusto mezzo.
I peli del cane sono proporzionali ai capelli che perdo in autunno. L’Expo mi è sembrato Gardaland. Crespi d’Adda che ora ciano in mezzo mondo, non è diverso da una qualunque cittadina industriale inglese targata 800 e quando ci cammini, dopo aver passato il ponte, ti sembra di rivivere il film “il seme della follia”.
La ragazza con l’orecchino di perla, o ragazza con il turbante: se non ci avessero fatto un film e un libro, non la conosceva nessuno.
Non sono una persona facile. Ne sono piuttosto certa. E non è un vanto. Lo fossi: vivrei meglio.
Sono un ariete ascendente capricorno, per chi ci crede. Ben dura farmi cambiare idea. Devo essere convinta.
La vita non è facile per nessuno credo. Cara grazia che ci sia stata data, oppure esattamente il contrario. Potevano anche evitare.
Buona giornata ragazza.
A presto
"Mi piace""Mi piace"
Una volta, qualche anno fa, un bel po’ di anni fa a ben pensarci, qualcuno mi disse: hai una famiglia e degli obblighi. La mia reazione istintiva è stata: se perdo me stessa la mia famiglia non avrà né me né i miei obblighi esauditi.
Rispetto per me stessa e non è sempre facile. Di conseguenza rispetto e aiuto per chi mi circonda.
Gli obblighi possono andare sul primo monte che trovano e cadere dall’altra parte. Il primo obbligo anche e soprattutto per chi amo: sono io.
"Mi piace""Mi piace"
A proposito. Casa tua è molto più a modino della mia. Ho solo una finestra con ringhiera. Camera pupattolo.. neanche a dirlo. Il cancello del giardino deve essere forzatamente chiuso perché il cane maggiore, scappa e morde. Vado in giro con più chiavi di una castellana medievale.
Odio gli acquari, le serrature, i tappeti, le tende e l’ordine imposto. Sono caotica e osservo la gente. Mi fa un po’ schifo anche il sushi a dire il vero. Odio fare le cose per imposizione. Butta i pesce foca salta. Non metto tailleur. Non metto tacchi alti (cado). Non me ne frega niente delle opinioni altrui se non mi feriscono. Se mi feriscono, metto da parte le buone maniere e parti di stiletto.
Rispetto gli altri, anche se a volte mi fanno sorridere. Non per presunta superiorità. E’ che ti fa ridere quando il vicino di casa ti si avvicina guardingo e ti dice, a voce molto bassa: il mio cane ha “le sue cose”. Cosa devo fare? Eh! bel dilemma. O la lasci fuori oppure implementi il mercato delle idiozie trandy per cani.
Il medico mi dice di dare a mio figlio l’aspirina per il mal di gola. La farmacista ritiene non sia il caso perché non ha ancora 16 anni. Al suo sedicesimo compleanno gli farò una bella torta di aspirine con scritto: benvenuto tra i grandi.
Non ti preoccupare: ognuno ha la sua e a volte è meglio smettere di girare attorno al proprio ego e lasciare perdere
"Mi piace""Mi piace"