Apologia del Tamì
La mia intervista con lo chef Mauro Lazzari parte con una notizia bomba: il Comune di Collio ha comprato il secondo troncone del Pezzeda. Ciò significa, signore e signori, che il Pezzeda riaprirà.
Trattandosi di bomba a corto raggio, metto a fondo pagina una BREVE disgressione* per aficiodanos e curiosi.
Prima che Mauro mi raggiuga, mi guardo in giro: bazzico questo posto da quando ha aperto e ogni volta che ci metto piede la sensazione è un piatto fusion fatto di comfort e wow.
Tamì: “Ogni volta che ci metto piede la sensazione è un piatto fusion fatto di comfort e wow”.
Si parte con l’insegna e il logo, e il ferro dell’ingresso, si prosegue con il legno degli interni. Legno a terra, sulle panche, per i tavoli. Legno delle travi sul soffitto a cemento. Legno per il bancone e legno che arriva da alberi autoctoni che – più a chilometro zero – stanno proprio dietro l’angolo, nei boschi di Collio, alta altissima Valle Trompia.
In cucina, alle dieci di oggi, ci sono due ragazze che puliscono l’interno di una cappa in acciaio inox lunga due metri e quaranta sopra sei fuochi. Intorno alla cappa e ai fuochi la sala operatoria del maestro: bianco abbacinante, ordine chirurgico. Forno, abbattitore per fare le paste fresche, i dolci, e per pastorizzare. Io non li conosco e non conoscendoli non li vedo, sarà Mauro più tardi a parlarmi degli strumenti (oltre ai citati, mi racconta dei tre frigo, della zona lavaggio piatti, di un piccolo magazzino sotterraneo e di una bottega con i prodotti locali).
In questo spazio, 14 tavoli per cinquanta posti max, quando io ero piccola, c’era qualcos’altro, finché Mauro e Michele, fratelli Lazzari, hanno deciso di farne una trattoria nel senso più alto, originale e goloso del termine. Qui c’erano dei vasi di vetro (dieci) con le caramelle dentro, dietro un bancone c’era la Luigina (zia di Mauro e Michele); dopo aver fatto la spesa, ci venivo con cinquecento lire che bastavano per un sacchetto pieno di Valda, Golia e pastigliette colorate di zucchero. La bottega dei Tamì era un bazar che vendeva di tutto, come si usava prima dei supermarket. Nella piazza, di bazar ce n’erano tre o quattro, oltre al macellaio (Il Maggi), al fornaio (L’Anselmo), e al negozio con gli animali di plastica per i quali io avrei dato un braccio.
Venivo quassù perché mio padre ci aveva costruito un albergo, case, altre cose e ho continuato a venirci perché Collio, per me che abito a Brescia, prima di essere un paesino, o un posto in cui andare a sciare o a camminare, è sempre stato un rifugio, una fuga dalle zuppe urbane, dalle suore prima e dai tacchi, dalle autostrade, dalle multinazionali e dai CDA poi. Ora che ho smesso di avere a che fare con autostrade, multinazionali e CDA, e che non ho più niente da cui scappare, continuo a tornarci: segno che questo posto merita.
Mauro arriva, mi fa un caffè (il secondo) e mi ascolta mentre gli dico che no, lo zucchero non serve, se il caffè è buono. Ho il Mac aperto sopra un tavolino rotondo in stile Biancaneve e i sette nani 2.0 con i tronchi intorno e una panca rivestita da cuscini morbidi e colorati.
L’arredamento è superbo. Impeccabile. Degno di uno chalet (figo) a Cortina.
«Merito di Michele» mi dice Mauro «che ha avuto testa e occhi nel sostenere il mio sogno e che per riuscirci ci ha messo anima, fegato e portafoglio.»
«C’entra anche Marenga, vero?» [Alberto Marenga, proprietario del Seconda Classe e dell’Area Docks → i due locali più fighi e stilosi di tutta l’urbe]
«Sì, l’ha disegnato il suo architetto, Laura Moglia.» mi spiega.
Nel 2008 Mauro e Michele comprano l’edificio e due anni più tardi il Tamì apre.
Per Mauro, Collio era territorio domestico, ma non fino in fondo. Finisce le elementari a Gardone Val Trompia, per stare vicino alla mamma, e poi fila a Gardone Riviera (Garda Lake) a fare l’alberghiero. Prende l’autobus alle cinque e quaranta e rientra a pomeriggio inoltrato. Lì mette piede nel suo primo stellato (Il Miramonti l’altro) come commis al fianco di Gianbattista Manzini (che ora – mi dice – ha un suo ristorante a Bergamo). È con lui mentre il Miramonti l’altro prende la prima stella Michelin.
Io, ignorante come una zappa, gli devo chiedere come si scriva commis e in cosa consista.
«Il commis»– mi dice – «è l’assistente». Poi mi guida nella distinzione fra aiuto cuoco, chef, chef di partita.
«E poi?» – gli chiedo.
«Poi parto con i ristoranti rinomati, Il Carlo Magno di Beppe Maffioli, Castello Malvezzi, Villa Paradiso (Fasano), Villa Fiordaliso (Gardone), l’Hotel Vittoria. E poi New York.»
«New York? Figo. Come ci sei arrivato?»
«Grazie allo chef dell’associazione Carlo Bresciani. Conosceva un ragazzo che aveva un ristorante italiano a Manhattan, Il caffè delle muse. Ora non c’è più.»
Mauro mi racconta che nel ’94 c’erano i mondiali di calcio. «L’Italia giocava a NY e siccome andava di moda mettere in vetrina le foto con i personaggi famosi, io ne avevo messa una mia con Roberto Baggio.»
«Come lo conoscevi?»
«Veniva all’Hotel Vittoria con la squadra quando ci lavoravo io. Nel mettere la foto fuori dal Caffè delle Muse, un giorno è entrata una delegazione di giornalisti italiani e io sono diventato una specie di VIP. Ho visto tutte le partite in tribuna d’onore. Una volta, con un gruppo di amici, abbiamo noleggiato una limo da NY a Boston.»
«Nel 2005 sono tornato in Italia e per un anno sono andato al Vecchia Lugana di Sirmione. Poi, l’anno successivo, entro al Merlo a gestire la cucina, mio padre muore, io avevo 25-26 anni. Mi fermo cinque o sei anni, un po’ spaesato. Non avevo voglia di ripartire. Mi serviva una pausa. Nel 2002 volo a Sidney da Alessandro Pavoni, un amico che oggi fa parte di Masterchef Australia e ha tre ristoranti. Rientro perché muore la zia (Luigina, ndr) e inizio a fare lo chef a domicilio e un po’ di catering. Nel 2008 l’idea di un ristorante mio diventa concreta. Ho le idee chiare: voglio ingredienti vicini, prodotti che arrivano da persone che conosco, che so come lavorano. Prendo la carne da Alberto (Lazzari) perché sono come alleva gli animali e so che li macella lui. Conosco il lattaio che mi porta il latte di malga per fare il gelato…»
«Qual è il tuo piatto preferito?» gli chiedo «… da mangiare, specifico.»
«Tutto ciò che è a base di formaggio. Sono tipo un Obelix cresciuto nel padellino.»
«Oh, il padellino…» – sospiro io, ricordando sulle papille gustative quella meraviglia di piatto che mangiavamo in Pezzeda, fatto con uova strapazzate, burro di malga, formaggella made in Collio e sugo di pomodoro. Il padellino era profumato, ricco, morbido, ipercalorico. Arrivava dalla padella in un coccio e non finiva che con il pane di Collio sui bordi, millimetro per millimetro. Potrei scriverci un libro, sul padellino.
«Le cose che ci piace mangiare sono quelle che ci ricordano i momenti belli di quando eravamo piccoli» – mi dice Mauro – «per mio fratello, per esempio, sono le cervella cotte nel burro di malga.»
(In carta, non a caso).
«E da cucinare? Qual è la cosa che ti piace di più cucinare?»
«I risotti» – dice – e mi parla di quando sua mamma (Lucia, fa i 70 tra poco) lo metteva sulla sedia a girare il risotto e gli diceva di stare attento.
«Faccio la stessa cosa col mio.»(Mattia, classe 2013).
«Cosa dice la tua mamma di questo posto?»
«Eh, dice che è un sogno che si è avverato. La stessa cosa che mi ha detto il patron del Miramonti l’altro, davanti a tutti i miei clienti: “Il tuo sogno si è avverato”. Quando un ragazzino di 15-16 anni dice che vuole un ristorante suo è normale, no? Ma quanti ce la fanno davvero? Ecco, se ce l’ho fatta, è grazie a mio fratello. Questo devi scriverlo.»
«Quando un ragazzino di 15-16 anni dice che vuole un ristorante suo è normale, no? Ma quanti ce la fanno davvero? Ecco, se ce l’ho fatta, è grazie a mio fratello. Questo devi scriverlo.»
Lo rassicuro e gli chiedo cosa pensi delle stelle e della parola chef. Lui mi racconta di quand’era ragazzo e faceva l’alberghiero. C’era un amico che dava soprannomi a tutti e siccome Mauro tornava da scuola e parlava dei professori chiamandoli chef, questo amico aveva iniziato a chiamare anche lui così.
“Dai, chef…”
“L’è riat lu a fa el chef!” → “È arrivato lui a fare lo chef”
Mauro Lazzari, lo chef (nell’idioma indigeno “El Chef”- la E è muta, come la D di Django) ci è cresciuto con questo nome addosso. Ha visto arrivare stelle, ne ha nutrite parecchie, ha deliziato papille in tre continenti e poi – sei anni fa, nel 2010, ha messo radici a Collio, trasformando il bazar della zia Luigina in un paradiso per palati sopraffini.
Io prenoto per telefono, chiamando il fisso e lui mi riconosce (lo so che ha il numero in memoria, ma fa piacere lo stesso), entro e come metto piede qui non sono a casa, è diverso: sono nella casa che vorrei, alla tavola che vorrei.
La carta è stagionale, superba, con piatti che non mi stancherei mai di mangiare.
Monotona, dite? Può darsi, ma per me funziona un po’ come per i libri:
Se non vale la pena rimangiare due-tre-dieci volte lo stesso piatto, non valeva la pena mangiarlo la prima.
Lo chef arriva al tavolo spesso e volentieri; l’acqua della sindachessa non manca mai, il cestino del pane (pur essendo pericolosissimo) non fa in tempo a svuotarsi; il vino è sempre quello giusto per pietanze e gusti.
Mio figlio (12 anni) mangia sempre: burrata e scamorza con verdurine, risotto al tartufo nero, valtrumpina (tipo valdostana rimasterizzata in chiave indigena e moooolto più buona dell’originale), gelato di malga. Io, invece, ho un debole per l’ovetto col Tartufo [uovo in un nido di patate, fonduta di formaggi, robiola fondente e tartufo nero pregiato (favolosa anche la versione asparagina)], lo chapeau; la faraona; il risotto con Amarone, radicchio e formaggella; le cervella al burro di malga; la parmigianina dello chef; i cerchietti (altra istituzione locale). Questo in inverno, perché in estate vado in brodo di giuggiole per: porcini impanati e trifolati, pappardelle al salmì di cervo, millefoglie con Bagoss e radicchio e trote di Ravenola al Franciacorta.
Gli amici che porto in trasferta al Tamì prima protestano:
“Ma dai, fino là? Quanto ci vuole da Brescia? Quaranta minuti? Non c’è un posto più vicino?”
Poi entrano, le loro mandibole calano alla vista dell’ensemble, si siedono, impazziscono e – tornati a casa loro – vanno avanti mesi a ringraziarmi, per le delizie dello chef, per i sorrisi di sua moglie, per lo spettacolo a tutto tondo (cinque sensi su cinque, più uno omaggio).
INDIRIZZI E CONTATTI:
- Trattoria Tamì – piazza Zanardelli, 9, Collio Val Trompia (Bs)
- da Brescia: 40 minuti
- Telefono: 030 927112
domenica | 10–15, 18–23 |
lunedì | Chiuso |
martedì | Chiuso |
mercoledì | 10–15, 18–23 |
giovedì | 10–15, 18–23 |
venerdì | 10–15, 18–23 |
sabato | 10–15, 18–23 |
*Digressione sul Pezzeda (che prima o poi riaprirà!)
Collio è l’ultimo paese della Val Trompia (Prealpi bresciane), mille metri sul livello del mare; duemila anime e due stazioni sciistiche di cui una riaperta dai Lucchini (manivaski.it) e l’altra chiusa dopo diversi anni di débâcle (vedi: sfighe a catena).
Per i bresciani, #ilPezzeda (che qualcuno chiama LaPezzeda) era più di una montagna con qualche impianto di risalita: era un’istituzione, una specie di sancta sanctorum dello sciatore alla Colò e dintorni, un luogo in cui sacro e profano si mettevano a tavola, sotto al sole, per sbranare il padellino e cantare a squarciagola. Poi, una sfiga dopo l’altra, il Pezzeda ha chiuso, riaprendo solo qua e là nel corso della bella stagione (bella per chi non scia) grazie a un campionato europeo (o mondiale?) di down-hill.
Ora, post notizia bomba, ci sono buone buonissima probabilità che il Taj Mahal dello sciatore lombardo riapra.
🙂