Sto qui seduta, ventilatore acceso, lupo arrotolato sul piede e penombra da tendoni arancio; è la vigilia di ferragosto. Ho appena fatto un trittico di pagamenti dall’online banking, di quelli da padre, figlio e spirito santo. Guardo il libro appena finito, stampato e rilegato e non ancora approvato dall’autore.
Mentre scrivo penso alla copia ricevuta lunedì, quella dell’altro, che uscirà solo in autunno. Penso al promemoria da stampare, quello che mi ricorderà chi aspettare e quando. E chi chiamare. E cosa fare, scrivere, editare.
Il mio direttore della segreteria organizzativa si chiama Brother, fratello. La sua assistente è ligure e di nome fa “Lavagna“, lunga-lunga, anzianotta, riciclata dal rudo, ma ancora in canna. Il primo mi sta alle spalle, appollaiato su un mobiletto di latta grigia, IKEA. La seconda è alla mia sinistra, al muro, appena prima della porta-finestra sul giardino. Vedo il mio Ibiscus, da qua. Strano non sia morto, mentre ero via. Nemmeno una foglia gialla. Ok, niente fiori, ma i boccioli sono lì lì per schiudersi. Lo fanno sempre di notte, loro. La sera li guardo, controllo i progressi. Dico la mia. Cagate, per lo più. La mattina scendo presto, apro le ante e li spio subito. Ma niente, poi mi giro e saltan fuori. Come fossero sempre stati lì.
Guardo il lupo dirigersi verso le sue faccende, lo vedo voltarsi per accertarsi che lo segua, deprimersi appena rendendosi conto che non mi muovo, farsene una ragione e andare per la sua strada, dietro l’angolo.
La sua è una defecatio pubblica, di norma. Gli piace essere osservato. Farla in compagnia.
Il massimo è in mare. Funziona così: faccio con lui un’ora di peripli per i campi, armata di sacchetti all’uopo, dandogli tutto il tempo che vuole. Lui mi trotterella accanto. Si ferma. Dà un’annusata a un cespuglio, si struscia contro un albero o un’erbaccia. Poi riparte. Dopo un po’ raggiungo una zona animata. Vedo la gente guardarlo. Ci fermano, fanno domande. “Ma è un lupo?”.
(No, un tasso. Però OGM).
Quando la ressa è al massimo, lui si accovaccia e molla la sua torta. Gli sguardi cambiano focus. Si spostano su di me. Inorriditi. Minacciosi. Io sventolo i sacchettini. Tento un sorriso di circostanza, come a dire “Calma. Ora raccolgo. Sono una apposto io.”
Provvedo con cura. Tolgo tutto. Ci manca mi porti un rastrello, un mocio e un pettine per passare l’erba. Il naso dei tizi rimane corrugato. Le facce schifate. Le testine ondeggianti a fare “No, no, non si può. Ma che roba…”. Se capita in acqua, non succede mai su un tratto deserto. Solo di fronte a un parterre di almeno un centinaio di bagnanti. E a me tocca asciugare il mare, portandomi via litrate di acqua salata, regolarmente richiuse nei miei sacchettini certificati.
Da un mesetto, ha in odio il genere maschile. Se con i bambini e le donne è un peluche, di quelli marchiati Trudy per intenderci, con i maschi adulti diventa un Cerbero, monocefalo ma Cerbero. Sbava e ringhia. Orecchie alzate, pelo gonfio. Da farsela sotto.
“Posso avvicinarmi?”, chiedono alcuni, mentre altri lo fanno a proprio rischio e per quei due decimi di secondo necessari a Mr Hyde per prendere il posto di Doctor Jeckill. Poi arretrano, veloci come fotoni, bofonchiando “Eh, eh, meglio di no, vero?”.
Già.
Ci sono poi quelli che insistono e da lontano mi raccontano che loro hanno un Rottweiler, un Pastore tedesco, un Jack Russell o un gatto. Rispondono al mio sopracciglio alzato, dicendo che sta a casa, dalla nonna, dalla zia o da una cara-cara amica che ha una pensione, ma non di quelle normali, no, una di quelle solo per pochi. Oppure vogliono fargli una foto. O mi chiedono se sia difficile da tenere. Se distrugga casa. Se sia buono. A volte rispondo per benino. Altre meno, sparandole grosse:
“Ah, guardi, è un disastro. Ho casa a pezzi. Mangia tutto, scappa, attacca. Si rivolta perfino! Un disastro…”
Se qualcuno dei miei è con me, lo sento sorridere. Non serve nemmeno che verifichi.
La verità è che il CLC, Cane Lupo Cecoslovacco, ribattezzato magistralmente in Cane Lupo Colla da V.C., non è un lupo. Ne ha la forma, l’aspetto. Ma non la natura. Quella è del cuscino. O dell’ombra.
Ha bisogno di contatto. Costante. Intenso. Acca ventiquattro. Se non ti vede mezzo minuto, va in delirio. Sclera. Se non lo caghi e ha voglia di coccole, ti stacca un braccio, per distoglierti da qualunque cosa tu stia facendo e portarti dove ha voglia tu vada. Che di solito e per me è a una decina di metri dal Mac.
Mi ha cambiato la vita. Fra due settimane compirà un anno. E in un anno mi ha insegnato un sacco di cose. Mi ha portato fuori. A camminare. Mi ha fatto perfino correre. In un paio di occasioni, credo mi abbia fatto battere il Guinness dei settecento metri piani (attacco in sincrono da quattro cani randagi a luglio e carica di un torello ad agosto). Mi ha aspettato.
Ha imparato che due minuti di grattini e strusciatine sono il massimo che riesco a sopportare. Sa che mi piace giocare. Che mi piacciono i dispetti. Che non può – per nessuna ragione – azzannare i miei libri. Che dei mobili non frega niente a nessuno dei due.
Mi ha costretto, per esempio, a familiarizzare con la spazzola rotonda che toglie i peli, quella di carta che si appiccica. Con l’aspirapolvere poi, ora ho un dialogo molto intenso. Due sessioni al giorno, come minimo, per evitare di camminare nel bianco del suo pelo. Perennemente in muta.
Mi ha insegnato a capire cosa vuole, come sta, cosa gli piace e cosa no. L’ha fatto guardandomi, muovendo le orecchie, infilando la coda fra le gambe fino a farla sparire, schiacciandosi a terra, saltando e non saltando. Mimetizzandosi. Abbracciandomi. (Dicono che ai lupi non piaccia, ma il mio non lo sa). Saltandomi sulle spalle, in acqua, tipo zaino, senza nemmeno graffiarmi. Mi ha spiegato che la prima cosa da usare non sono gli occhi, ma è il naso, per sentire l’odore e capire se chi ho di fronte la sta dicendo tutta oppure no. Mi ha costretto a comprare più frutta e verdura, perché a lui piace.
Me ne sono innamorata subito. La notte del due Novembre 2014, andando a prenderlo a Legnano, in provincia di Milano. Ma è con i mesi che ho iniziato davvero a conoscerlo. E ad amarlo. Più lo conosco, più lo guardo, lo scopro, lo studio e più lo amo. Amo lui, non la sua razza, non il suo pelo, non i bellissimi occhi gialli con il kajal intorno, il suo passo fiero, i suoi sorrisi fino alle orecchie, la sua muscolatura. Amo il suo modo di avere paura, di farmi capire che non ci siamo, di nascondersi dietro di me, di fare lo spavaldo due metri avanti, di farmi vedere che c’è lui a proteggere me e il mio cucciolo. O che è meglio intervenga la mamma. Subito. Amo sentirlo sognare, sbuffare, sospirare. Guardarmi perplesso, incredulo o divertito. Mi fa ridere.
Dicono in tanti sia impossibile, averne uno. E forse hanno ragione.
Un lupo, così come qualsiasi altro essere vivente, non si può “avere”. Puoi stargli vicino. Ma non puoi averlo. Puoi provare a conoscerlo, a vedere se vi piacete, se andate d’accordo, se insieme siete più felici che da soli. Puoi farci un po’ di strada insieme.
Ma non puoi averlo.
Non ci pensare nemmeno. Chi vive non si possiede.
Come hai ragione Roberta!!!
Il CLC non si può AVERE!
Si può AMARE, giocarci, passeggiarci, viverci insieme, imparare da Lui…..
O da Lei, come la Nostra Amelia…..
Il pezzo è bellissimo e VERISSIMO!!!!!
Grazie😘💕
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