
Ecco perché mi piace la penna che ha dato vita a LA DISTRAZIONE DI DIO*: Alessio Cuffaro non spiega, fa vedere, e la vista è quello che io cerco quando leggo.
Sul perché non mi interessino gli spiegoni, la faccio facile e uso Wallace, conscia di correre il rischio di far credere a chi invece legge me che io non conosca altro, visto che lo cito come se prendessi le royalties dalla vedova Green.
È quasi impossibile spingere una persona a riflettere con attenzione sui motivi per cui una cosa non gli interessa. È la noia in sé a vanificare la ricerca di risposte; l’esistenza della sensazione è più che sufficiente.
Alessio Cuffaro non spiega niente e nel suo #grandeclassico fa quello che DFW chiama esformazione (con la f, con buona pace del correttore) – ovvero una certa quantità di informazioni vitali rimossa ma al tempo stesso evocata da una comunicazione in modo da provocare nel destinatario una specie di espulsione di collegamenti associativi.
Funziona più o meno così: tu leggi e senti nel naso il profumo dei legni nella bottega del falegname; senti in bocca la sabbiolina della polenta sotto una sarda appesa e il ferro del vino che incasina la vista e sputtana gli affari. Senti i passi dell’eleganza, la voce della nobiltà; senti tutta l’umanità dei vecchi che fanno i ragazzini e dei ragazzini che sono nati vecchi; vedi la luce di un’abat-jour che trema per colpa dell’insonnia, senti la musica sotto le dita e nelle strade di Parigi. Pensi a quello che accade lì dentro, nella storia, e poi ti vengono in mente altre cose che invece sono successe proprio a te come se lui, Alessio, le avesse scritte per te.
Finisce che una volta non ti basta.