“Se gli anni settanta sono stati gli anni del punk, gli ottanta quelli degli yuppie e i novanta quelli del grunge e dell’acid house, i primi duemila passeranno alla storia come quelli dei neo-hipster, il supermercato dello stile che ha frullato tutte le subculture del novecento in uno stile pretenzioso e imitativo.”
Si chiamano Hipster. Ma hanno poco in comune con i fondatori del termine, non hanno vissuto gli anni Quaranta, non necessariamente amano il jazz o il beepop (ma far finta aiuta), non sono per forza decadenti, antisociali o anarchici.
Qualcuno di loro è un genio, molti di loro sono bravini, quasi tutti sono sul pezzo, da free lance, in attesa d’altro oppure no. Portano scarpe comode, tendenzialmente orrende ma comode e camicine allacciate fino all’ultimo bottone. I pantaloni, anche se chi li porta è alto un metro e un iPhone, sono arrotolati, stile passeggiata sulla spiaggia, anche a Milano, su e giù dalla metro.
Sono comparsi nel Bel Paese all’inizio del secondo millennio, fiorendo prima negli ambienti creativi, quelli della pubblicità, degli art e dei grafici, dei fotografi e dei copy. Per osmosi, da uno shooting all’altro, passando per briefing segnati sulle note di un iPad e meeting report inviati dallo smartphone, si sono moltiplicati, riproducendosi da una scrivania all’altra, da un brand all’altro.
Di primavera in primavera, il vecchio radical chic sinistrorso, colto, raffinato e un po’ agée, li ha visti occupare i muretti dei propri happening, prendere la parola e seppellire i matusa di feed, rss, applicazioni web, condivisioni e punteggi Klout.
Il prototipo dell’architetto, quello con i pantaloni di lino, le ciabatte e il capello lungo, s’è visto defraudato del proprio look da uomo delle caverne cresciuto a pane e Calatrava, invecchiato a Sbagliato e maria e ingentilito da centinaia di migliaia di vernissage (molti dei quali unguardable perfino per lui).
Di colpo, le barbe sono arrivate in città, in quasi tutte le città. Hanno raggiunto e ingentilito e maschilizzato generazioni intere di programmatori, contabili, consulentelli in polo Ralph Lauren e Reverso, commercialisti, avvocati e serigrafi.
L’uomo medio, quello mediamente bruttino, o mediamente bellino, o mediamente insignificante, neutro per definizione, tratti somatici, fisiognomica e carattere, di colpo, diventando pelo-munito, ha acquisito fascino, glamour e figa.
Tutto questo fino al picco di massima, raggiunto a livello planetario tra Aprile e Giugno*, al quale, come da fondamenti di economia politica, è poi seguita l’inversione di tendenza: quando l’offerta non riguarda più beni di nicchia, ma si massifica, la domanda cala. Funziona per il petrolio, per le arance, per le borse e pure per le barbe.
Se fino a un paio d’anni fa, vedere un giovane barbuto faceva strano e suscitava per lo meno un filo di curiosità legata al retaggio ancestrale del maschio alfa mixato dagli effetti dell’advertising di mezzo mondo, dopo l’inversione di tendenza, fa perfino sorridere.
Già: sorridere. Perché l’umano è volubile, le mode cambiano, arrivano, impazzano, si stallano e poi finiscono, per poi tornare, decenni dopo, nel ciclo interminabile del piace e del non piace, del “non lo fa nessuno, quindi se lo faccio io sono fichissimo”, fino al “lo fanno tutti, tocca lo faccia anch’io”, per finire nel “ah, io la barba ce l’avevo quando non esisteva ancora”.
E quindi, cari i miei Gentlemen, prendete le lamette e che la Gilette sia con voi.
Credits:
Spunto: Giulia Trapuzzano, via Facebook (grazie)
Articolo originale: “L’hipster non è più cool?” da Doppiozero.com e Tiziano Bonini è l’autore di Hipster, un ebook di doppiozero, acquistabile qui
Fonti trasversali: ricerca della South Wales University pubblicata dalla Royal Society Publishing “Negative frequency-dependent preferences and variation in male facial hair”.
Immagine: case history di una campagna messicana di MediaCom per Gilette, rintracciata qui
Autore di “Io ce l’avevo quando la barba ancora non esisteva”: comparsa, evoluzione e fine di una generazione di barbe: @robertagiulia